Casa di Marta si accende con il dibattito proposto da “La Bussola”
6 Dicembre 2019

SARONNO – Circa duecento persone martedi sera hanno partecipato a Casa di Marta all’incontro su suicidio assistito ed eutanasia promosso dal Circolo della Bussola, il sodalizio attivo in città da alcuni anni che si è conquistato un posto di primo piano nella promozione di eventi culturali su temi importanti e di grande rilievo etico come questo.
Protagonisti due personaggi che vivono quotidianamente il problema dell’accompagnamento al fine vita: Alessandro Pirola, Direttore della Fondazione Maddalena Grassi che offre da anni cure palliative domiciliari e in strutture dedicate altamente specializzate, e don Vincent Nagle, cappellano della stessa fondazione. Ad essi si aggiunto l’avvocato saronnese Filippo Germinetti che ha analizzato i profili giuridici della recente sentenza della Corte Costituzionale sul caso DJ Fabo.
Una prima considerazione è che i casi di cui si parla molto sulla stampa rappresentano una percentuale quasi irrilevante sul totale delle persone assistite e accompagnate alla morte. Nella stragrande maggioranza dei casi la relazione del paziente (o dei suoi familiari in caso di inconsapevolezza del paziente) con i medici curanti consente di trovare soluzioni ragionevoli, efficaci e umane per garantire ai malati terminali una qualità della vita accettabile e un accompagnamento sereno fino al termine dell’esistenza. “Oggi – ha sottolineato Pirola – le cure palliative e le terapie del dolore consentono di evitare sofferenze nella quasi totalità dei casi senza ricorrere quasi mai alla cosiddetta “sedazione profonda” che impedisce qualsiasi relazione del malato con l’ambiente che lo circonda. Occorre distinguere tra dolore e sofferenza, due termini spesso sovrapposti ma ben distinti: il dolore si può lenire con i farmaci, la sofferenza va accompagnata e sostenuta ma non è possibile evitarla perché è una dimensione insopprimibile della vita”
Sul termine compagnia ha insistito don Nagle. “Davanti alla morte dobbiamo accettare la realtà della nostra impotenza. Quello che possiamo fare – e non è poco è accompagnare il malato e la sua famiglia (quando c’è) perché comprenda attraverso la solidarietà umana e per chi crede cristiana che anche la sofferenza è una dimensione a suo modo feconda della vita”.
Germinetti ha analizzato la recente sentenza della Corte rilevandone una contraddizione: da un lato insiste sulla dimensione personalistica (art 2 della Costituzione) del soggetto portatore di diritti e quindi in grado di autodeterminarsi, dall’altro consegna il giudizio sulle modalità di fine vita alle strutture sanitarie pubbliche (quindi allo Stato) pur prevedendo per gli operatori la possibilità di sottrarsi a interventi di eutanasia attiva che restano sanzionati dalla Legge. Viene depenalizzato solo la collaborazione alla volontà esplicita del paziente di interrompere le cure non solo quelle straordinarie ma anche l’idratazione e la nutrizione che finora non era considerate vere e proprie cure. In questo – ha concluso Germinetti – c’è la novità più preoccupante della sentenza peraltro ampiamente anticipata dalla legge sulle Dat (Disposizioni Anticipate di Trattamento) che di fatto ha aperto la strada a questa evoluzione giuridica.
E’ seguito un dibattito con testimonianze di operatori sanitari e di semplici cittadini che hanno raccontato con accenti di viva commozione le loro esperienze in questa delicata e dolorosa materia.
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Commenti
Dato che il suicidio non è reato, non deve né puo esserlo qualsiasi scelta personale in merito al proprio fine vita. Pretendere di imporre ad altri qualsiasi scelta sulla base delle proprie convinzioni personali è violenza. Significa non riconoscere o voler togliere diritti ad altri.
per quanto mi riguarda la cosa è semplice, solo io posso e devo decidere cosa farne della mia vita qualora fossi in fase terminale