“Fuggire dal male verso il male”: il saggio alla scoperta del sé ad opera degli studenti del liceo Grassi
15 Giugno 2025

SARONNO – Lo chiamano, simpaticamente, il “temone”, ma non è nient’altro che un brillante micro-saggio scritto da quattro giovani studenti di quarta del liceo Grassi. Chiara Balestrini, Claudia La Cava, Filippo Codegoni, Alice Ianniello e Delia Prete hanno colto lo stimolo didattico del docente di lettere, Daniele Corradi, e scritto un testo con le parti più significative di alcuni temi sviluppati in classe. Alcuni porteranno questo elaborato anche nel proprio Capolavoro, per l’anno scolastico corrente.
Il tema dello scritto è il viaggio all’interno dell’io, con riferimento a grandi autori: da Torquato Tasso a Milton, ma anche Hermann Hesse, Stephen King, le serie tv più note, come la Casa di Carta, e l’arte manga giapponese di Naoyuki Ochiai. Diverse forme di arte, tutte concernenti lo stesso tema: l’io, la società, il bene e il male.
“Il micro-saggio tratta del vivere tra gli estremi opposti della adesione a quanto ci domanda la società e la fuga escapista verso il divertimento e l’abbandono – così commenta il docente, Daniele Corradi – tra il bene sociale e il “male” della ribellione egoistica. I ragazzi svolgono questo tema in maniera davvero dotta, commentando spunti letterari del programma di lettere, tratti da autori come Torquato Tasso e Milton. La consegna era la rielaborazione in un testo unico (sorta di “temone”complessivo, come l’abbiamo simpaticamente chiamato) di alcune produzioni scritte eccellenti svolte in orario didattico (tipologia C dell’esame di stato), donando al tutto coerenza e, possibilmente, capacità di catturare l’interesse di un target di lettori quotidiano.”
Qui il testo integrale del saggio dei ragazzi.
Vi siete mai chiesti chi siete davvero?
Tolti il vostro nome, la vostra età, la vostra professione; tolti i vostri affetti e il vostro sport preferito; tolte tutte quelle cose che parlano di ciò che vi piace o di ciò che vorreste avere, e che sono conseguenza, ma non essenza, di ciò che siete: che cosa vi rimane?
Avete mai pensato al perché, quando ci presentiamo, parliamo sempre di quello che fa da contorno alla nostra vita, ma mai di ciò che è al centro? Ci descriviamo seguendo moti centrifughi, che tendono sempre verso argomenti generici e convenzionali, come se volessimo evitare il vero fulcro dell’argomento: noi stessi.
Questo è dovuto al fatto che, per quanto cerchiamo di convincerci del contrario, nemmeno noi ci conosciamo completamente.
È questa la cruda realtà: nessuno sa davvero chi è.
E questa consapevolezza di cui pochi hanno il coraggio di parlare, ma che tutti, in fondo, abbiamo, ci porta inevitabilmente a fuggire.
E quando si parla di instabilità, squilibrio, fuga, crisi d’identità, chi citare, se non il celebre poeta Tasso?
Torquato Tasso, nella sua vita e personalità, incontra una divisione profonda tra due forze opposte: conformismo e irregolarità, nonché un movimento centripeto e uno centrifugo. La tensione tra questi due aspetti è il fulcro del suo dramma esistenziale. Da un lato vi è il bisogno di adattarsi al mondo esterno, rispettando le tradizioni e le aspettative della società; dall’altro vi è la spinta a scoprire e vivere una dimensione più personale.
Tasso si trova, dunque, dilaniato tra il desiderio di approvazione esterno e la necessità di esprimere la sua individualità e le sue inquietudini interiori. L’autore cinquecentesco, in particolar modo, è un personaggio alquanto disturbato: durante il corso della sua vita vi sono svariati episodi che lo confermano. Egli in effetti, per riportare un esempio, si presentò sotto mentite spoglie a casa della sua amata sorella per comunicarle la propria morte, ovviamente mai avvenuta! La sua unica spiegazione: scoprirne la reazione e testare l’affetto di lei nei suoi confronti. Solo in seguito ad aver ambiguamente apprezzato la di lei disperazione, rivelò la sua vera identità, celata sotto il travestimento. Inoltre, il suo tormento lo portò non solo a presentarsi volontariamente dinanzi al Tribunale dell’Inquisizione per accertarsi di essere nel giusto, ma a vivere un’intera esistenza all’insegna dell’irregolarità, cambiando costantemente città, alla ricerca di un luogo che potesse davvero definire “suo”.
(Nel noto dipinto di Delacroix, vediamo Tasso rinchiuso nell’ospedale di Sant’Anna, nell’ala dedicata ai malati di mente.)
L’escapismo, inteso come il desiderio di allontanarsi dalla realtà per rifugiarsi in un mondo di fantasia, trova quindi una manifestazione pregnante nelle opere di Tasso, le quali sono intrise di tensioni psicologiche. Un valido esempio è il canto della “Gerusalemme Liberata” in cui Erminia è angosciata a causa delle gravi ferite riportate da Tancredi, uomo che lei ama. Si può individuare un esempio di escapismo nella sua fuga dal dolore provocato dal dubbio sulla sorte di Tancredi. Ella decide di vestirsi da Clorinda, eroina guerriera più bella e forte di lei, in un atto di mascheramento che rappresenta la fuga dalla sua identità e dalla sua condizione di donna addolorata e impotente. Il travestimento è una ricerca di sicurezza nell’anonimato. Così, Erminia fugge nella foresta ed è proprio qui che il suo gesto di fuga si intensifica. La selva diventa il luogo in cui Erminia si rifugia dalla sofferenza che la pervade… ma che finisce per invadere tutta la foresta, trasfigurata dalle sue lacrime. Chi sostiene che sensazioni così potenti possano unicamente essere provate in vita, si illude di trovare totale quiete nell’aldilà: sia questo un morbido letto di nuvole o una cupa camera ardente, dai sentimenti, però, non si fugge mai.
Un altro personaggio della “Gerusalemme liberata” che prova un tumulto simile a quello della giovane Erminia è Satana, ampiamente descritto nel canto quarto.
Gli aspetti caratteriali del Diavolo sono particolarmente analizzati da Tasso: oltre all’inarrestabile odio verso il Creatore, emerge la sua spavalda superbia e il suo scarlatto desiderio di vendetta, insieme al suo palese dominio all’interno degli Inferi. Difatti, non appena pronuncia il famoso discorso politico che ha come intento quello di convincere i dannati a contrastare i cristiani impegnati nella crociata a Gerusalemme, si ha assoluto silenzio. Solo gli abissi del lago Cocito vibrano, evidenziando, con una sorta di eco, la potenza insuperabile di Satana, che riecheggia anche a estreme profondità.
Come può un caduto, che sin da subito si rialza, non suscitare ammirazione? Il discorso di Lucifero, tenuto in tono solenne, si fonda su domande pungenti dirette agli ascoltatori. Il desiderio? Quello di infettare le anime peccatrici della stessa ira da lui provata, per farle rialzare dalle macerie e combattere nel migliore dei modi chi, dal Paradiso, le ha cacciate.
Allora l’apposizione “Maestà” può avere proprio questa accezione: essere in grado di risollevare un intero popolo e spingerlo al più presto all’agire. È inutile mascherarsi con l’immagine di un falso buonismo: tutte le rivoluzioni nascono dall’ira, una rabbia repressa che percuote il petto con il desiderio di spaccarlo ed evadere.
La stessa matrice di collera è utilizzata anche nel “Paradiso Perduto” di Milton (poema che descrive il susseguirsi di vicende bibliche a partire dalla caduta degli angeli ribelli, sino alla cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre) quando Lucifero, tramite innumerevoli espressioni, convince gli ascoltatori del fatto che la sua fazione sia la migliore. Alcuni esempi sono i versi “Better to reign in Hell than to serve in Heav’n”, che evidenzia l’inevitabile condizione di subordinazione in cui tutti si sarebbero trovati in Paradiso, e il celebre “Awake, arise, or be forever fall’n”. Quest’ultimo verso suscita una simile brama di vendetta rispetto alle molteplici e nefaste condizioni in cui si trova chi scrive (o chi legge…), indispensabile per combattere nella vita di tutti i giorni.
Eppure, il male non suscita attrazione solamente quando ha come fine il conseguimento di un traguardo… per quanto nel corso della storia, così come in innumerevoli trattati di filosofia, sia indicato di perseguire il bene con l’obiettivo di raggiungere la felicità, nella realtà dei fatti ciò che smuove maggiormente l’animo è proprio il male. Perché non esiste godimento superiore a quello del male.
Di queste potenze inestimabili, bene e male, che regolarmente risiedono all’interno di noi, è possibile considerare, in relazione a differenti eventi e circostanze, una prevalenza della prima sulla seconda, o viceversa. La differenza è largamente percepibile. Quando vi è un dominio di bene, per quanto questo dia origine al compimento di azioni frugifere nei confronti della società, si rischia spesso di cadere nel banale, nel consueto, nel solito. Le emozioni che arreca sono sicuramente positive, ma rimangono standard, senza mai giungere alla massima gioia; la strada del male fornisce al contrario una sorta di frizzante adrenalina che scorre nelle vene dell’individuo fino a raggiungere il cuore, che scoppia in un’incomparabile sensazione di follia.
Difatti, Edmund Burke, passato alla storia come il filosofo del Sublime, sostiene che il male ci affascina in quanto sorgente di un misto di paura e meraviglia. Da dove viene questa attrazione?
In primo luogo, ciò che il male provoca è sicuramente un insieme di emozioni forti. E manifestare le proprie emozioni significa vivere. Più esse sono amplificate, più ci sentiamo vivi.
In secondo luogo, l’uomo rimane pur sempre un animale, e come tale il suo primo istinto sarà sempre la sopravvivenza: è necessario quindi che affronti il pericolo per imparare a gestirlo.
Infine, l’uomo percepisce un certo richiamo per l’ignoto e un fascino per il proibito, che può generare un piacere inaspettato, in ogni senso. Questo “male” può essere qualcosa di violento, irrequieto, ma anche qualcosa di più comune: la bugia, l’omertà, la fuga dalle proprie responsabilità.
Anche oggigiorno si sentono casi di fuga da ogni situazione. Studenti laureati in legge che decidono di viaggiare per il mondo un’ultima volta qualche mese prima di dedicare la vita al lavoro e, invece, si innamorano della loro costante fuga; donne con neonati, esauste, che cercano un’attività (lo yoga, la lotta libera, l’arco e la freccia) per distrarsi; persone uscite da una relazione di sette anni che occupano il loro tempo e il loro vuoto interiore con un hobby improvvisato, talvolta inutile.
Solo alla fine si realizza che scappare è più umano del permanere nello stesso luogo.
Come afferma Cartesio nella quarta parte del suo “Metodo”, giungere a una destinazione errata è meglio del rimanere completamente fermi o retrocedere. Perché, come sostiene anche Pascal, la prigionia umana sta nel permanere, non avere novità, rimanere fermi. E dunque, si mette in pratica il divertissement, un oblio, una qualsiasi attività che ci permetta di scappare dal terribile senso di vuoto interiore.
Bramiamo fuggire da quei lati di noi che non riusciamo a comprendere, figuriamoci a gestire.
Fuggire da quei luoghi in cui ci sentiamo in gabbia, perché completamente distanti dalla nostra persona.
Fuggire verso dove? Spesso non lo sappiamo, in realtà.
Ciò che sappiamo è che speriamo di trovare qualcosa di noi, in quei luoghi; e che anche quando non sappiamo dove andare, non riusciamo comunque a stare fermi a lungo nello stesso posto.
E questo bisogno impellente di evadere dice di noi molto più di quanto si potrebbe pensare. Siamo esseri versatili e in continua mutazione, alla costante ricerca di se stessi: non statue di rigido marmo destinate a rimanere per sempre uguali, ma costruzioni d’argilla in perpetua evoluzione, che col tempo assumono forme diverse, talvolta anche in contrasto con le precedenti.
Questo è dovuto al fatto che, per quanto possiamo provare a negarlo, ognuno di noi è spinto ad agire da moti contrastanti, se non addirittura opposti; vorremmo mostrarci sempre forti e invincibili, ma più ci proviamo, più scopriamo quanto, in realtà, siamo fragili; vorremmo essere paladini della moralità e del buon esempio, ma più ci proviamo e più ci rendiamo conto di quanto l’animo umano sia iniettato di odio e di male. Perché fuggire dalla realtà quotidiana non equivale, come molti pensano, a un “escamotage” per esimersi dai propri compiti e allontanarsi dalla propria persona. Al contrario, sottolinea la complessità della natura dell’essere umano, che va ben oltre ciò che fa (a scuola o al lavoro): siamo mossi da spinte contrastanti che ci portano in direzioni diverse, impedendoci di stare fermi; e per capire davvero chi siamo abbiamo bisogno di sperimentare ambienti diversi, perché è solo così che potremo far emergere tutte le sfaccettature che ci compongono.
Ciò si evince perfettamente dal romanzo “Narciso e Boccadoro” di Hermann Hesse, in cui il protagonista intraprende un lungo viaggio alla ricerca di se stesso, per poi fare ritorno al monastero dal quale era partito, ma profondamente diverso da com’era quando l’aveva lasciato: cresciuto, maturato e più consapevole di chi era davvero, grazie ai luoghi che aveva visitato.
È proprio per questo che abbiamo così bisogno di fuggire: perché la nostra complessità non può essere circoscritta dalla realtà o dalla razionalità e, anzi, spesso quei luoghi (fisici o fantastici) che sembrano chiamarci senza nessun ragionevole motivo rivelano di noi molto più di quanto non facciano le nostre professioni o passioni.
Riflettendo su questi aspetti, è facile pensare al cult cinematografico “IT”, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, del quale rimane particolarmente impressa la scena in cui i giovani protagonisti, anziché fuggire dal pericolo rappresentato dal pagliaccio, ne sono incuriositi e decidono di scendere nelle fogne per trovarlo, e lo spettatore non fa altro che chiedersi disturbatamente (disturbingly in inglese) il perché di questa decisione, che adrenalinicamente determinerà le sorti del racconto.
Tuttavia, la più affascinante corrosione condotta dal male è quella volta a rovinare un’altra energia incommensurabile: l’amore.
Il discorso diventa assai più complesso quando poi è l’amore a cercare il piacere nel male. Qui non si tratta di evadere dai propri tormenti, ma di cercare appositamente un tormento per stare bene. L’ibristofilia (termine della psicologia che deriva dal greco filìa, amore per la übris o hỳbris, tracotanza, amorale superbia) è proprio il disturbo caratterizzato da un’attrazione nei confronti di soggetti criminali. Molti, leggendo queste parole, avranno immediatamente pensato alla storia d’amore romanzata all’interno della celebre serie TV spagnola “La casa di carta”, dove il personaggio di Stoccolma, prigioniera del rapinatore Denver, si innamora completamente di lui, e da ostaggio iniziale finisce per convertirsi al mondo criminale. Questa storia, seppur ovviamente romanzata per i fini della trama, tratta però una reale malattia psichica che negli anni (soprattutto negli Stati Uniti), è stata oggetto di numerosi casi di grande rilevanza mediatica. Un caso molto famoso e molto studiato è stato quello di Richard Ramirez, un serial killer che in prigione ricevette centinaia di lettere d’amore da parte di donne (una arrivò addirittura a sposarlo!) attratte unicamente dai suoi omicidi e dalle torture con cui li praticava. Eppure questo non è neppure il caso più incredibile, poiché spesso i due partner coincidono con il carnefice e la vittima stessa!
Il motivo per cui ciò accade è un fatto istintivo e svincolato da logica e ragione. Si spiega anche perché sia un fenomeno prettamente femminile: la donna che viene rapita, torturata o stuprata, viene inevitabilmente distrutta dal punto di vista emotivo, della dignità e dell’autostima; se poi in lei queste caratteristiche sono già basse, la vittima diventa un guscio vuoto e quindi sottomissibile da chiunque, specialmente da chi l’ha “sconfitta” (come avviene nei branchi di lupi da parte dei maschi alpha). Il suo istinto le dice che quella persona è forte, impavida, crudele (e quindi temibile): quindi sarebbe un ottimo difensore e, per evitare che le capiti la medesima sofferenza, si lega volontariamente al carnefice. In questa logica, torture e violenze sono visti come un diritto dell’essere superiore verso quello inferiore, in cambio della protezione per quest’ultimo, qualcosa di psicologicamente accettabile per la vittima. Nel mentre il carnefice, vedendo la sottomissione e l’attrazione della vittima, prova un senso di autocompiacimento simile a quello che i pavoni sentono dopo aver impressionato una femmina della specie, con la loro coda.
Si instaura così un rapporto puramente animale tra i due, carnefice e vittima, che può farli regredire fino ad uno stato completamente bestiale, rendendo impossibile una “ricivilizzazione”. Quest’ultima analisi permette al lettore di avere una risposta alla domanda se questa attrazione possa avere conseguenze positive: assolutamente no!
Infatti il partner che sceglie di stare con un criminale non ha autostima né autorevolezza e quindi non può imporre o influenzare, ma solamente essere influenzato. I casi clinici di questa patologia che si considerano risolti non sono quelli in cui la coppia migliora, ma quelli in cui il partner non criminale riprende consapevolezza e coraggio per affrontare l’altro e staccarsi da lui; forse, tornando ai concetti di identità e fuga (rivisti però in ottica negativa), il caso si risolve abbandonando quella maschera di amore criminale che la vittima aveva indossato, convinta che lì, in un amore diverso e quindi non soggetto alle regole della società, fosse la sua via di realizzazione identitaria.
La prima opzione, la redenzione del criminale ad opera della vittima, non è invece semplicemente possibile. Infatti i criminali si possono redimere con l’aiuto di qualcuno, ma quel qualcuno deve essere di carattere forte e deciso (oltreché empatico e compassionevole) perché deve convincere chi ha sbagliato che ha effettivamente sbagliato e deve cambiare mentalità (come non pensare alla Sonja che prova a redimere il criminale Raskòl’nikov, nel romanzo di Dostoevskij “Delitto e castigo”? O alla sua rielaborazione manga “Delitto e Castigo – A falsified romance”, di Naoyuki Ochiai, ambientata nel mondo universitario giapponese, tra criminali hikikomori e immorali enko…).
Impresa decisamente ardua, questo drastico cambiamento del criminale, considerato il fatto che, in realtà, l’essere umano tende sempre a non voler ammettere i propri errori, anche (e soprattutto) con se stesso: si ritrova così a fuggire dall’evidenza di ciò che ha commesso, preferendo nascondersi in una versione finta e distorta di chi è, piuttosto che dover affrontare la realtà dei fatti e quanto sia stato in grado di compiere del male.
Perché alla fine, come lo stesso Torquato Tasso ricorda: “Magnanima menzogna, or quando è il vero sì bello che si possa a te preporre?”.

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