Elisa Rossini al Museo Gianetti per “Ricamare il dolore”
SARONNO – Sabato 26 aprile a conclusione della mostra “Storie di fili. Il cuore, la città, il mondo” a partire dalle 14.30 al Museo Gianetti di via Carcano di Saronno avrà luogo la performance “Ricamare il dolore” a cura di Elisa Rossini.
La performance nasce dall’analisi di alcuni lavori relativi al dolore esposti in mostra: opere nelle quali è ossessivamente presente il filo. Proprio attraverso il filo e la ripetitività del gesto, l’artista è riuscita non solo ad essere consapevole dei propri “dolori” o patimenti fisici nonché psichici, ma anche ad analizzarli, comprenderli e quindi a trasformarli in un nuovo lavoro. L’analisi dell’artista ha indagato anche altri “dolori” di persone, gruppi, di varie origini: sensi di vuoto, di precarietà individuali o collettive, di ferite fisiche visibili attraverso lastre mediche o risonanze, ma anche di ferite non visibili, ma pur sempre percepibili. Il filo, il ricamo, diventano unità di misura del dolore,di sé stessa, dello spazio.
In questa performance le protagoniste saranno il corpo delle infermiere volontarie della Croce rossa italiana Saronno e le volontarie della Rete rosa Saronno contro la violenza alle donne. Le volontarie ricameranno la parola “dolore” su pezzi di tela aida che successivamente verranno uniti per formare un abito ed, attraverso l’atto del ricamare, diverranno delle tramiti tra il dolore e la sua manifestazione.
Spiegano gli organizzatori
Non saranno referenti del proprio dolore ma del dolore comune, del dolore condiviso nell’arco della loro esperienza. Come se attraverso un semplice gesto si possa mostrare il dolore visto, curato o solo percepito.
Un dolore che porta in sé l’amore e l’energia di poter trovare una risposta una volta fuoriuscito, una volta che la ferita è a contatto con l’aria, che è visibile, che è quindi curabile. Le volontarie diventano quindi dei mediatori, dei possibili intermediari tra un pubblico e un sentimento, stato emotivo o fisico che può appartenere a pochi, ma anche a chiunque. Esse “opereranno” alla realizzazione dell’abito, raccontando le esperienze di dolore da loro viste o vissute, lo faranno ricamando insieme, a volto scoperto, a mani nude, a occhi aperti e davanti ad un pubblico non scelto, ma disposto ad ascoltare, assistere e prendere atto dei loro racconti attraverso la semplice partecipazione dell’essere presenti. Chi soffre, chi sta male, chi è ferito è solito nascondersi, a curarsi le ferite a porte chiuse. In questa occasione si manifesterà la dignità del dolore, non vissuto in modo negativo, ma parte della vita e che, fisico o morale, il dolore, esternandolo e condividendolo (affidandolo) diviene più leggero. Il lavoro finale diverrà un abito, dal latino habitus, che traduce il termine greco aristotelico héxis, può significare un modo di essere, comportamento, disposizione. Un abito cucito insieme con del filo bianco, che riporterà tanti “dolori” ricamati con il filo rosso. Un dolore che può essere indossato, ma anche un dolore che si può togliere: ci si veste di dolore, ma ci si può anche svestire da esso per poterlo vedere fuori da sé.
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