Alfonso Indelicato (Fdi) firma un racconto sulla questione islamica
SARONNO – Un racconto sulla questione islamica; l’ha realizzato il consigliere comunale saronnese di Fratelli d’Italia, Alfonso Indelicato. Lo pubblichiamo integralmente.
C’era, anzi ci fu una volta, tanto tempo fa, una nazione.
Essa aveva vissuto nella sua lunga storia alterne vicende: periodi di grande splendore ed altri di grave crisi. Ma non era mai venuta meno, nella maggioranza del suo popolo, la virtù che consisteva in una saggia bonomia, in una spontanea riluttanza per tutti gli eccessi, in poche parole in una profonda umanità.
Taluni ritenevano che questa particolare virtù fosse dovuta alla sua lunghissima storia con il succedersi di luminose civiltà, ognuna delle quali aveva lasciato un retaggio di sapienza e bellezza. Altri ritenevano piuttosto che la causa fosse da indicarsi nella soave religione la quale, diffusa da duemila anni presso di essa, aveva ingentilito gli animi e temprato i costumi.
Come che sia, il popolo di quella nazione viveva più serenamente di quanto vivessero gli altri popoli, anche quelli più ricchi e che per varie discutibili ragioni godevano di un maggior credito al cospetto del mondo. Affrontava la vita con un misto di allegria e disincanto, fantasia e buon senso, fatalismo e determinazione. E i giorni i mesi gli anni scorrevano lievi.
A un certo punto di quella storia una guerra combattuta valorosamente contro forze soverchianti, avvelenata dal tradimento e infine perduta, moltitudini di prigionieri costretti a spaventosi esigli e città semidistrutte dalle bombe, infine lembi di terra sacra strappati da un nemico ottuso e feroce, interruppero quel dolce e raccolto vivere.
Ma non valsero a fiaccare a lungo quel popolo umilmente fiero. Esso ritrovò se stesso e le fonti del suo esistere in una rinascita che sbalordì il mondo. Come in una nuova alba di vita, le città distrutte rifiorirono, gli opifici rinacquero, il nome di quella nazione fu ancora grande.
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Perché ciò che ne costituiva il cuore pulsante era la famiglia: le mura delle case e i ponti e gli opifici erano stati diruti dalla guerra, ma non la famiglia.
La famiglia che educa, protegge, rincuora, assiste nel bisogno, se del caso rimprovera e corregge. Padre e madre uniti in profonda intesa, anche nei miti reciproci rimbrotti. Figli che continuavano a nascere numerosi.
Quella famiglia aveva, col suo ricordo, ristorato i cuori dei combattenti sui troppo numerosi fronti di guerra, e li aveva accolti feriti nel corpo o nell’animo al ritorno dalla battaglia o dalla prigionia.
E ora essa spronava al duro lavoro, confortava nelle difficoltà, accoglieva nelle ore del riposo.
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Non è facile – parlando in generale – cogliere l’attimo del cambiamento, il lieve incresparsi sulla superficie limpida delle acque che prelude all’onda tumultuosa e poi alla tempesta.
Per quanto riguarda la nostra questione, poi, cominciò tutto in modo assai singolare.
Su alcune riviste dedicate al pubblico femminile comparvero (nello stesso torno di tempo, come se vi fossero stati in proposito delle intese) rubriche dedicate ai rapporti fra uomini e donne. Vi si dava grande importanza alla sessualità, rivendicando alle donne il diritto di viverla in modo attivo e originale.
Nello stesso tempo, e sugli stessi fogli, il maschio della specie umana, non considerato nella sua essenza o nella sua generalità, ma in specifico nella versione occidentale, cominciò ad essere denigrato e quasi sfigurato. Vi si scriveva delle sue pretese di dominio nei confronti della donna, della sua stessa sessualità nel contempo monocorde e proterva, insomma della sua sostanza umana insulsa ma arrogante.
Goccia dopo goccia, questi concetti cagliavano nelle menti delle sensibili lettrici, le quali appartenevano quasi tutte a un ambiente sociale eminente o quanto meno sufficientemente agiato e pertanto disponevano di tempo e comodità per le loro riflessioni solitarie o comuni. Le mogli cominciarono a guardare i loro mariti con altri occhi, così le fidanzate i futuri sposi. Si formavano nelle menti eccitate oscure riserve. A loro volta molti uomini cominciavano a provare un’intima inquietudine, un sentimento di inadeguatezza e insufficienza.
Ad un gradino superiore di riflessione, il gradino della cultura universitaria e della saggistica antropologica, le stesse cose invero erano state già dette da qualche tempo, e per la prima volta nei pensatoi universitari d’oltre oceano, là dove fermentava tutto ciò che era destinato a cambiare il mondo, o almeno una parte di esso. Ma ora venivano divulgate presso un pubblico più ampio, certo con qualche semplificazione ma con un’efficacia dirompente.
E alta cultura e divulgazione si trovarono d’accordo, e ora agivano insieme, come due ferrate ganasce della stessa tenaglia.
Sorsero allora nella società dei movimenti di opinione e di lotta. In particolare un piccolo partito, che fino a quel momento aveva avuto un ruolo del tutto marginale nella vita della nazione, improvvisamente salì agli onori delle cronache. Si trattava di poco più di una pattuglia di personaggi finora ignoti, ai quali dall’oggi al domani, ancora una volta come per un comune disegno, altre e ben più cospicue formazioni politiche riconobbero il ruolo di punta di lancia nella lotta per quelli che chiamavano diritti civili.
L’uno e gli altri, in ogni modo, riprendevano le idee di indipendenza e liberazione dei sacri tomi e delle pagine patinate, ma urlandoli nelle piazze e per le strade delle città. Per la prima volta nella storia di quella nazione, uno dei due sessi si levava contro l’altro e rivendicava di poter vivere senza l’altro, in una completa e totale e assoluta autonomia.
Il mondo delle istituzioni politiche non poteva rimanere insensibile a tutti questi fermenti.
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Le leggi civili che vigevano da tempo immemore in quella nazione, pur modificandosi secondo le diverse temperie storiche, avevano sempre riconosciuto all’interno della famiglia un principio di autorità. L’esercizio di questo principio era affidata al padre.
Tale principio era nei fatti temperato dall’amore, dall’affetto, dalla consuetudine, dalla convenienza di non inasprirsi vicendevolmente, da ultimo dalla volontà di rimanere insieme per amore dei figli e dal timore della riprovazione sociale, e funzionava come un ultimo appello, cui peraltro il marito raramente ricorreva. In ogni modo la sposa sapeva dell’ esistere di quel principio, e ciò la consigliava a non incattivirsi contro il suo sposo oltre un certo segno.
Ma ciò che era sempre apparso come un istituto di saggezza, sembrò all’improvviso odioso e vetusto.
Il nuovo diritto di famiglia, approvato infine dal parlamento a larga maggioranza, stabilì che fra marito e moglie vi fosse una perfetta parità di prerogative quanto alla scelta della dimora, alla gestione economica della famiglia, all’educazione della prole e ad ogni altra opera comune. Ma questa si rivelò presto una parità fittizia.
In nessuna società naturale infatti, animale o umana, sussiste una simile perfetta parità: essa sarebbe fonte di contrapposizione e disquilibrio, come una bilancia i cui piatti, sospesi nell’aria e non gravati da alcun carico, oscillano a ogni soffio di vento. L’autorità riconosciuta come tale, al di là delle qualità e dei difetti di chi la incarna, è fattore di stabilità e infonde sicurezza a quanti si raccolgono attorno ad essa. E quando i difetti di chi la esercita sono in eccesso, non ci si sogna per questo di contestarla: si aspettano tempi migliori, confidando nella santa pazienza. Così era sempre stato. Così più non fu.
Inoltre, tutto quel movimento di cultura e di divulgazione e di piazza che operava il cambiamento raggiunse allora punte di virulenza non ancora sperimentate. Chi aveva in animo di resistere ad esso ne rimase sconcertato o annichilito.
Di lì a pochi mesi fu introdotto il divorzio.
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Quanti si aspettavano una ferma reazione da parte dei ministri del culto in difesa dei sacri principi ebbero presto modo di disingannarsi. Dai pulpiti si modulavano voci flebili e intimidite, levate come per onor di firma.
E questi furono in realtà gli esempi di maggior fermezza. Altri infatti, semplici sacerdoti e presuli, accondiscesero alla nuova legge in nome della libertà di coscienza, la quale sembrò allora diventare un nuovo e più imperativo precetto in aggiunta a quelli che già vigevano consacrati dalla tradizione e raccomandati nei luoghi sacri al popolo di Dio.
Fu da questo punto della sua storia che, nel corso di pochi anni, la nazione vide corrompersi e franare dentro di sé quell’ antico cuore pulsante.
La famiglia cedeva. Era stata una rocca difesa con tutte le armi. Quelle della santa religione e della morale. Quelle meno nobili ma non meno efficaci della consuetudine e del pubblico decoro. Perfino quelle dell’ipocrisia e del peccato, in nome del ragionevole ma ora aborrito principio del male minore. Ma ora una nuova morale insegnava che, quando la famiglia diventava un intralcio al libero dispiegarsi del singolo individuo (alla sua crescita, come si era preso a dire), o quando quest’ultimo vedeva logorarsi il legame col proprio coniuge (quello che le patinate riviste chiamavano ora partner) non era colpa liberarsi dell’ostacolo, ma lo sarebbe stato, piuttosto, il perseverare in un rapporto conformistico e insincero.
Così in nome della sincerità famiglie si frantumavano e altre unioni si formavano mischiando frantumi a frantumi.
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In quelle di esse che resistevano, si accendevano dispute fra genitori e figli, spesso insanabili. Erano genitori e figli, sangue dello stesso sangue, ma all’improvviso guardandosi negli occhi appartenevano come a due ere diverse. I padri avevano combattuto in guerra o comunque della guerra avevano sofferto i rigori, avevano creduto in un’etica di sacrificio onorabilità dirittura; i figli erano nati e vissuti nella dovizia guadagnata per loro dai padri, impegnati in altra guerra dopo quella vissuta nelle steppe, nei deserti e sugli acrocori fangosi.
Così in nome dell’emancipazione atomi umani, espulsi dalla loro piccola società familiare, si ritrovavano spesso in condizioni di indigenza e bisognosi di sostegno.
I figli dimoravano di solito con le madri, a queste affidati da una giurisprudenza favorevole più che dalla lettera delle leggi. E si avvezzarono a vedere il nuovo amore della madre condividere con lei il talamo dove erano stati concepiti, coricandosi sulla sponda là dove il loro padre usava coricarsi. E vedevano il padre, quando potevano frequentarlo, assumere parvenze ed atti giovanili per sembrare conforme alla sua nuova compagna e così poterle piacere. E i padri dopo alcuni anni non riconoscevano più i loro figli e arrivavano perfino ad odiarli, poiché non avevano partecipato alla loro educazione e più non li sentivano propri, ma di altri. E si può credere che a loro volta i figli non erano lieti della morte della loro famiglia, e non ne ricavavano motivi di intimo equilibrio.
Anche le spose che in forza di qualche lontano retaggio erano incapaci di abbandonare il marito, smarrirono comunque verso costui la creanza e il rispetto. A lui toglievano la parola in pubblico, e pubblicamente lo dileggiavano. I mariti si ridussero così fra le pareti domestiche a figure umbratili e fioche, e sospettosi interrogavano le mogli con lo sguardo quando stavano per proferire una parola che credevano potesse ad esse spiacere, affrettandosi a un loro cenno a dichiarare che no, non si erano ben spiegati, o avevano già mutato intendimento. E capitava che le mogli recuperassero il rispetto e l’amore dovuti d’un tratto, di fronte al feretro dello sposo appena defunto: allora piangevano strepitosamente intuendo quale abisso sarebbe stata la loro vita d’ora innanzi, e improvvisamente invocavano colui che per anni avevano umiliato e insolentito. Ma la vicenda umana insieme era ormai consumata: non ci sarebbe stato per loro un secondo tempo, né in questa vita, né nell’altra.
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Così, considerato quanto poco durassero i matrimoni, i giovani di quella antica nazione presero a non più contrarne – nella forma sacramentale così come in quella civile – limitandosi a dimorare nella stessa abitazione per il tempo che il reciproco interesse durava.
E quando quest’ultimo aveva termine o si faceva più tenue convertendosi in un mite affetto (perché tale e non altro è il destino dei sentimenti umani, destino che peraltro in passato non aveva mai impedito solidissimi matrimoni) allora aveva termine anche il dimorare insieme e la connessa farsa di vita familiare.
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In questo contesto di relazioni evanescenti e orbate di futuro, in questo diffuso rifiuto di responsabilità in ordine a un vincolo durevole, non poteva che venir meno anche l’interesse per la procreazione e l’educazione della prole. Sembrava, questo, un impegno troppo oneroso per chi non sapeva se il sorgere dell’indomani lo avrebbe visto ancora insieme al suo convivente. Molteplici furono le motivazioni che si diedero alla spaventosa denatalità che colpì la popolazione, ma tutte erano deboli a fronte di questa: che per concepire la cura e l’educazione di un figlio bisogna credere nella famiglia come in qualcosa di fecondo e durevole, e per l’appunto in questo non si credeva più.
Così tra i due sessi si apriva e poi andava approfondendosi sempre più un baratro che non era fatto soltanto di reciproca incomprensione – questa in fondo c’era sempre stata, fin dalla notte dei tempi – ma di un’ostilità più o meno viva a seconda delle circostanze e dei temperamenti.
La diversità tra l’uomo e la donna non era più un dato di natura che complicava i rapporti ma parlava anche di un destino comune: altro non appariva, adesso, che la premessa di un’inimicizia profonda e foriera di drammatici contenziosi, inimicizia che soltanto la passione più intensa poteva per qualche tempo prevenire o attenuare. Ma che non dava scampo, nel tempo, a chi nel momento dell’ardore aveva fantasticato una lunga vita insieme.
Tra le pareti domestiche la donna manifestava un’aggressività sorda, petulante e capziosa, cui l’uomo rispondeva con remissività rassegnata e impotente, poiché sapeva che l’autorità pubblica, se avesse bussato alla porta, gli avrebbe strappato i figli la casa e il denaro per consegnarli alla donna, e l’avrebbe precipitato così nella solitudine e nella miseria: preferiva dunque egli vivere silente come sotto un ricatto continuo. Talora però, e man mano sempre più di frequente, egli non sapeva affrontare giudiziosamente la sua condizione, e la rabbia compressa esplodeva in atti di violenza bestiale. Questo era lo scenario di ogni relazione (ed erano la maggior parte) che andava a finire: centellinate stille di veleno e stolida brutalità.
Di tutto questo che avveniva, in verità, non sarebbe giusto dare la colpa ai singoli. Il cambiamento verificatosi era epocale: in pochissime decine di anni si era percorso un cammino di secoli. Non si può chiedere alla moltitudine l’esercizio della virtù in grado eroico: salvare il proprio matrimonio stringendo i denti quando era presente, comodamente pervia, spalancata, la via d’uscita. La fermezza delle leggi, il biasimo della società: sono questi i fattori che sostengono la coscienza del singolo nel cammino accidentato. Ora l’uno e l’altro non sussistevano più, e la coscienza del singolo, anche quando illuminata da una retta ragione, rimaneva sola in un deserto, nuda e impotente. Non era, insomma, la sostanza umana che era mutata: questa permane uguale nel tempo. Donne che ora contristavano i loro mariti, in altri tempi sarebbero state spose devote; uomini che incrudelivano nei confronti delle spose, le avrebbero tenute care.
E avvenne infine che quanti – tra gli uomini come tra le donne – dentro di sé covavano segretamente qualche inclinazione verso persone dello stesso sesso, diedero corpo a questa inclinazione e conobbero un nuovo genere di amore, il facile e disimpegnato amore del coito sterile, e quanti già lo praticavano, ma con riserbo e intimo imbarazzo, si sentirono, più che giustificati, gli interpreti e quasi i beniamini dei nuovi tempi, tanto numerosa era la compagnia in cui si ritrovavano.
***
“Nonno …”
L’anziano interruppe la lettura e rivolse al ragazzo gli occhi profondi, sormontati da due lunghe sopracciglia oblique il cui colore nerissimo contrastava con la barba quasi candida.
“Parla pure, Asif”.
“Cosa vuol dire coito?”
In verità, un momento prima di pronunciare quella parola, l’anziano si era allarmato dentro di sé, e aveva rapidamente cercato un sinonimo. Non l’aveva però trovato. Ora bisognava in qualche modo rispondere al suo nipotino.
“Vuol dire … quando un maschio e una femmina stanno insieme”.
“Ma insieme come?” insisteva il ragazzino con la petulanza di chi ha intuito di essere alle soglie di scoprire un segreto scabroso.
Il vecchio allora lo fissò brevemente con uno sguardo non tanto severo quanto definitivo, al che il ragazzo subito tacque e riprese il viso dell’attenzione.
… Finché, essendosi gli abitanti di quella nazione ormai avvezzati a ogni mutamento che prima pareva inusitato, e i loro governanti non essendo molto diversi dai governati, senza troppe resistenze furono approvate leggi che permettevano all’uomo di sposarsi con l’uomo, la donna con la donna. E tali leggi consentirono loro ben presto di crescere, se lo gradivano, dei piccoli d’uomo e di chiamarli figli, comunque e dovunque li avessero ricevuti.
Fu in quel torno di anni che si tastò una volta per tutte il tenore della religione diffusa da duemila anni in quella antica nazione. Essa era invero una falsa religione, pur contenendo dei rudimenti di verità che attendevano il loro compimento, quel compimento che ora è finalmente avvenuto grazie alla diffusione del culto del vero Dio. Aveva essa bensì la qualità di ingentilire gli animi, ma i suoi sacerdoti, fosse per il timore di rimanere isolati dalle opinioni comuni, fosse per mera confusione di idee e dottrine, presero a fare proprie tutte le suggestioni che provenivano dal mondo. Tra queste fu appunto quella di considerare il desiderio di persone del proprio sesso simile all’affetto tra un uomo e una donna, poiché veniva comunque chiamato, tale sorta di legame, amore. E così si videro molti sacerdoti benedire nei luoghi sacri quelle unioni, e annotarle nei loro registri.
Si consumò così in quell’antica nazione la fine della famiglia. E, con essa, della società intesa come una comunità capace di vivere attraverso i tempi mantenendosi fedele a se stessa. Perché essa era stata il luogo in cui le generazioni si parlavano, e ora questo luogo non c’era più. Sopravviveva un certo numero di esse, ma erano come isole in mezzo a un mare coperto di detriti galleggianti, insufficienti a garantire il persistere di quei retaggi che educano i bambini e che i giovani contestano ma finiscono prima o poi per raccogliere. E così le giovani generazioni rimasero come cieche, frantumi umani plasmati dai mezzi di comunicazione e dei loro messaggi multiformi e discordanti.
***
“Fu allora che …”
Il ragazzo, seduto sul basso divanetto del salotto, stava agitandosi già da un po’. Non è facile tenere fermo troppo a lungo un ragazzetto poco più che decenne, per quanto serio e ben disposto ad imparare come Asif.
Egli aveva seguito il racconto dell’anziano con vivo interesse per quasi mezz’ora, poi aveva cominciato a guardare fuori dalla finestra che si affacciava sull’ampia piazza, infine a giocherellare col cellulare che aveva in tasca, peraltro senza osare di estrarlo completamente fuori.
L’anziano sorrise, comprensivo e benevolo. Chiuse il grosso libro che teneva fra le mani e lo posò delicatamente accanto a sé.
“Bene Asif, ora basta così. Riprenderò il racconto, se lo vorrai, domani.”
“Certo nonno, certo che lo voglio … domani.”
Asif si alzò di scatto dal divanetto e si affacciò alla finestra aperta. Del resto era ora di smettere la lettura: era prossimo il tramonto, e dall’altra parte della piazza, sul minareto che un tempo era la cuspide più alta della cattedrale, fra poco si sarebbe affacciato il muezzin.
“Nonno …”
“Sì?”
“Dimmi solo una cosa: come li abbiamo conquistati?”
Il nonno sorrise nuovamente. Si era alzato in piedi dal folto tappeto sul quale era accovacciato, e con gesti lenti stava spianando la sua lunga veste variopinta con i palmi delle mani.
“Abbiamo detto domani, no?”
“Ma almeno dimmi: li abbiamo sconfitti in una grande battaglia? Come quelle battaglie del tempo antico, quando i nostri cavalieri uccidevano i nemici che indossavano pesanti armature?”
Il viso di Asif aveva ora un’espressione incuriosita e ansiosa. Il ragazzetto amava il genere di racconti i cui protagonisti sono eroi forti e avventurosi.
“In realtà, Asif, non ci fu nessuna battaglia”.
“E allora, com’è che abbiamo vinto noi?”
L’anziano stava ora tramestando dentro un piccolo armadio istoriato. Ne trasse due tappetini da preghiera e li dispose sul pavimento nella direzione corretta.
“Se mi hai ascoltato, Asif, dovresti aver capito perché non fu necessaria nessuna battaglia”.
Asif, che mentre parlava era rimasto affacciato alla finestra per vedere il muezzin, si girò verso il nonno. Aveva ora la bocca semiaperta, e i suoi grandi occhi neri sembravano inseguire pensieri lontani e sfuggenti. Poi si posarono fermamente sul viso del nonno dai lineamenti scavati e, quando non sorrideva, austeri.
“Non sapevano più combattere?”
La voce del vecchio uscì lieve dalle sue labbra, mentre sollevava leggermente le spalle con un gesto in cui si mescolavano indifferenza e disprezzo.
“Non sapevano per cosa combattere.”
Così disse l’anziano, e si inginocchiò sul suo tappetino, facendo cenno ad Asif di fare altrettanto.
“Nonno, nonno!” esclamò il ragazzo dopo essersi inginocchiato.
Il muezzin s’era infine affacciato sulla balconata del minareto, e si disponeva al suo ufficio.
“Dimmi, Asif”.
“Nella storia che mi stai leggendo si dice che le donne di questa nazione non volevano più bene ai loro mariti.”
“Press’a poco si dice così.”
“Allora, perché quando siamo arrivati qui, hanno voluto subito bene, a noi? Una delle mogli di papà è nata qui …”
“E tuo padre, Asif, non le vuole meno bene di quanto ne vuole a tua madre Karima oppure a Rashida. Se poi in cuor suo ha una predilezione, non la dimostra. Così deve fare il bravo credente.”
“E allora, nonno, perché?”
Il vecchio sorrise, poi gli sfuggì una specie di ghigno soffocato, e intanto andava abbozzando dentro di sé la risposta migliore da dare al ragazzo.
Ma non poté appagare la curiosità di Asif: in quel momento si era alzato il grido del muezzin. Risuonava nel cielo terso sopra la vastissima piazza, lungo i portici dell’arengario, e, dall’altro lato, dentro la galleria dalla volta di ferro e di vetro intitolata a un antico monarca, e ne giungevano gli echi fino al massiccio edificio costruito dall’architetto Piermarini. Là dove un tempo – così si dice – si svolgevano empi spettacoli in cui uomini e donne indossavano vesti sgargianti e cantavano a gran voce canti lascivi.
Alfonso Indelicato
24032016
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Commenti
Simone sei proprio come tutti i sinistroidi, fissato con le ideologie NON VEDI LA REALTÀ
complimenti per la considerazione riguardo al sesso femminile,quanta retorica,quanta misoginia……
Io credo proprio che questo racconto sia una visione di quello che sarà il futuro qui in Italia, ma un futuro molto vicino. I terroristi sono solo uno spartiacque per far legalizzare le moschee e l’islam. Dobbiamo aver paura di quelli più tranquilli che sfornano 10 figli…loro voteranno un giorno e democraticamemte si prenderanno l’Europa. Questo processo è ormai irreversibile. Mi dispiace per i miei nipoti. Ringrazio il sign Indelicato per il racconto visionario che purtroppo diventerà realtà. La libertà non è per tutti…;certe culture non si integreranno mai,integreranno noi.
Condivido la Tua preoccupazione..che e’ in fondo la mia..!.E..cosi’ sara’…,mentre gli stolti ,ignoranti catto-comunisti ,continuano a chiudere occhi e orecchie..Ma finira’ cosi’..!!! K.
Certe culture invece sono state sconfitte nel ’45, ma cercano sempre di tornare a galla.
Ulp. Indelicato un romanziere di successo.
…che pena. Ma un po di sana censura sulla qualità degli scritti non si fa più?? ah no quella usava nell’epoca dorata dei vari indelicato, il ventennio d’oro.Qualche dubbio mi viene sulla bontà di chi ha combattuto per la libertà…per permettere di scrivere male sciocchezze??
È un racconto talmente realistico che se, appena appena ci fosse un pochino di conoscenza dei fatti che accadono nel mondo, di coscienza della gravità degli eventi, certi commenti potrebbero essere risparmiati, purtroppo l’ignoranza è immensa…
concordo assolutamente: il fatto è che gli ignoranti manco sanno di essere tali….c’è da dire che un tempo chi scriveva almeno doveva spendere qualche soldo per stampare, adesso trova facilmente il modo di pubblicare: a questo ci si aggiunga che il lettore non deve spendere neppure un soldo per leggere,e il gioco è facile,ma la qualità degli scritti è quella che è….
Spero almeno che la gazzetta dello sport ti interessi…
Non mi sembra corretto che le nostre risposte siano soggette a moderazione e quindi, a volte ce nsurate, mentre questi delirii vengano pubblucati
Probabilmente sei abituata a leggere le riviste che parlano di Belen, piuttosto che altre cavolate…non è per te leggere quello che scrive Indelicato , la cultura non è per tutti…
Caro anonimo, la tua provocazione mi lascia del tutto indifferente. Visto che non ci conosciamo, nessuno dei due può giudicare il livello intellettivo dell’altro basandosi su due righe. Certamente tu non hai mai letto ne la costituzione, ne i vangeli, forse neanche libri storici sulle crociate, più facilmente avrai letto “mein kampf”, ma ne dubito. Troppo difficile
Non raccogliere le mie provocazioni…Senti è Pasqua, ti auguro una Santa Pasqua nel Signore
infatti la cultura è quello che manca da quando si è insediata a saronno questa amministrazione
Confesso. Mi sono fermato alla prima riga. C’era, anzi ci fu una volta, tanto tempo fa, una nazione.
Ha fatto bene, Vladimiro. In fondo il succo del mio racconto è quello. Saluti
Dissento sempre dalle idee di Indelicato, ma apprezzo sempre il modo in cui le esprime
Grazie
Mi perdoni Dottor Indelicato. Ho avuto la stessa reazione che ho leggendo un comunicato del Telos. Lavoro in pubblicità e di conseguenza apprezzo il dono della sintesi. Mi sono fermato alla prima riga non per denigrarLa, ma perché avevo già capito il messaggio.
Cordialmente
Vladimiro