Da Saronno a Buenos Aires: Carlo Motta racconta l’avventura a pedali in Argentina
SARONNO / BUENOS AIRES- Continua il viaggio di Carlo Motta alla scoperta dell’Argentina, ripercorrendo le orme degli italiani lì emigrati. Il saronnese Carlo Motta, accompagnato da Enzo Bernasconi, scrivono il loro diario di viaggio parlando delle loro avventure in bicicletta.
Joves 14 de marzo, Achiras – Rio de los sauces
108 i chilometri percorsi e 800 i metri saliti. I chilometri saranno 106 e i metri saliti 800.
Ieri sera avevo studiato il meteo su diversi siti, immaginato la posizione delle stelle dietro le nubi, letto l’oroscopo su un giornale al bar di una stazione di servizio, fatto fare le carte ad una zingara in pensione, compilato i rebus della settimana enigmistica e tutto mi autorizzava a sperare che il tempo sarebbe migliorato. Al mattino la dura realtà: il tempo è pessimo, nuvole basse e pioggerellina che senza accorgerti ti ritrovi infradiciato. Partiamo di buon mattino e incuranti del meteo pedaliamo di buona lena tanto che in poco più di quattro ore sfanghiamo (è il caso di dirlo) un’ottantina di chilometri. Ci fermiamo ad Alpa corral dove è tutto è chiuso, la stagione è finita ci dicono. Finalmente un bar aperto: beviamo caffè caldo (porzioni immense) e Media lunas (cornetti) e riusciamo anche a metterci qualcosa di asciutto. Sono gentili, quando viaggi in bici le persone sono mediamente più disponibili, ti vedono debole, fragile e quindi più umano: se possono ti danno una mano. La padrona del bar è di origini piemontesi, cognome ferrero. Il nonno si imbarco’ da solo a Genova che era ancora bambino, 12-13 anni. Chissa se aveva pianto quando la nave aveva lasciato il porto o se era riuscito a trattenersi come gli aveva detto sua madre: “Ormai sei un uomo, e gli uomini non piangono”. Arrivato a Buenos Aires, dopo i controlli sanitari e burocratici, fu messo su un barco e risalendo il Rio Parana’ arrivò a Santa fe’. Che angoscia, che sprofonfo, che disperazione, che strazio, che smarrimento negli occhi e nel cuore di quel bambino! Gli incubi che abitavano i suoi sonni saranno diversi di quelli che oggi fanno i “minori non accompagnati” che sbarcano (quelli che c’è la fanno) sulle nostre spiagge?
A fine tappa arriviamo a Rios de los sauces ci rifocilliamo nel bar di una stazione di servizio; anche il gestore è di origini italiane, venete per l’esattezza. In TV trasmettono in continuazione notizie del maltempo che sta flagellando il nord del paese tra le province di Misiones, Entre rios e Corrientes: la cosiddetta Mesopotamia argentina. Il vasto territorio è compreso tra i fiumi Parana’ e Uruguay che con i loro affluenti creano immense lagune. Entrambi i baristi sono sostenitori di Milei, sapessero almeno fare un espresso!
L’alloggio che troviamo è pessimo ed il costo elevato ma tant’è… Un caro saluto e occhio ai baristi argentini. State in campana.
Carlino
Domingo 17 marzo; Alta gracia – Cordoba
39 i chilometri percorsi e i 60 metri saliti. Ultimo giorno pedalato del nostro viaggio e, eso es, sotto l’acqua.
Troviamo alloggio in un hotel centralissimo, praticamente sulla piazza della cattedrale. Chiesa di modeste dimensioni ma cerco subito alla sua destra la via che per oltre 70 anni ha ospitato la centrale di polizia trasformata durante l’ultima dittatura argentina (1976-83) in un campo di prigionia, tortura e sparizione. La dittatura, si legge sulla porta d’ingresso, “convertio’ este lugar en un centro de persecucion, detencion, tortura y exsterminio a todo aquel sospectado de opositor politico”. Attirano l’attenzione le centinaia e centinaia di foto, appese come fossero panni stesi su fili tirati da un lato all’altro della via; foto che ritraggono i giovani desaparecidos di cordoba. Oltre 1400, tanti i cognomi italiani. Ora nei locali della polizia ha sede l’archivio provinciale della memoria ed il museo sui crimini commessi in quegli anni. Il museo è chiuso domenica e lunedì e quindi non riusciamo a visitarlo. Tra le camere di tortura e le mura della cattedrale ci sono forse meno di dieci metri: è mai possibile che dal vescovado non si vedesse o sentisse nulla? È mai possibile che delle urla di quei poco più che bambini non arrivasse niente all’orecchio dei fedeli che ascoltavano messa? A qualche centinaio di metri, sul lato opposto della cattedrale alcune facoltà universitarie: era un attimo passare dalle aule ai seminterrati. Erano operai, sindacalisti, impiegati, studenti, insegnanti, erano persone di tutti i giorni. […] La maggior parte dei sequestri avveniva di notte, gli orchi, sotto forma di eroiche pattuglie di militari in abiti civili, entravano direttamente nelle case. La vittima veniva picchiata, imbavagliata, incappucciata e portata via su una Ford falcon; il resto della famiglia terrorizzata era tenuta sotto tiro dai fucili. Agivano sempre due/tre pattuglie (una decina di uomini): una “patota” prelevava la vittima e la portava nei centri di “detenzione” segreti, passavano direttamente dal letto di casa al tavolo di tortura. Con calma il resto della masnada rubava tutto il possibile, se necessario arrivavano addirittura dei camion per svuotare l’abitazione. Di notte, in dieci contro un ragazzo o ragazza, qui senza distinzione di genere, di 20 anni o giù di li, poco più che ragazzini! Ma che gran prova di valore, coraggio, hidalgia mostravano quei militari: che vigliacchi. La giunta militare aveva introdotto la pena capitale ma condanne a morte ufficiali non ce ne furono, semplicemente si spariva per non tornare mai più, neppure sotto forma di cadaveri.
Il museo è chiuso ma in un video all’ingresso uno dei rarissimi sopravvissuti racconta: “Esto sucedió en el centro de Córdoba. ¿Dónde está toda esta gente? ¿Cómo podemos hablar de democracia si no sabemos nada de toda esa gente que no está ahí?” Domande che attendono risposta. L’auto usata per queste prodezze da medaglia al valore venivano compiute dalle bande, le “patote”, che viaggiavano sulle famigerate Ford modello falcon di colore verde scuro/nero; erano auto molto in voga in quegli anni e con un baule molto capiente. Nel cortile della fabbrica Ford di buenos aires si arrestarono e torturarono gli operai più attivi nelle proteste di quegli anni. Il collettivo dei delegati sindacali venne poi portato nei centri di tortura e l’azienda, per chiarire meglio da che parte stava, li licenzio’ per abbandono del posto di lavoro! Ma Cordoba non è solo questo. Parte del centro è una bella isola pedonale dove la sera è possibile passeggiare e incontrarsi. Migliaia di giovani tra le 18 e le 22 inondano le scalinate e i muretti nella zona del Paseo del buon pastor per chiacchierare, mangiucchiare qualcosa e soprattutto a bere mate. Ettolitri di acqua calda si trasforma in Mate cocido; tutti questi ragazzi che chiacchierano e bevono acqua calda trasmettono anche a chi passa una buona vibrazione, a me è successo.
Dopo aver visitato la bella (più bella della cattedrale) Iglesia del sagrado coracon mangiamo qualcosa e ci dirigiamo verso un sonno che sarà popolato di orchi e fantasmi. Comunque, come sempre vi invio un caro saluto e non mancate di stare in campana
Carlino
Martes 19 de marzo; Buenos aires
In poco più di 9 ore siamo nella grande Buenos Aires, l’enorme città abitata da 15 milioni di persone: un terzo di tutti gli argentini abita qui. Sul bus, durante il viaggio da cordoba, dormiamo poco e male. Certo la poltrona “cama” non è un.letto ma soprattutto credo che il problema sia derivato da un vicino di poltrona che aveva un sonno molto rumoroso, soffriva di roncopatia acuta ovvero russava come un orso. Arrivati alle 8 al terminal ritiro di BA montiamo le bici che sono arrivate intere. In meno di mezz’ora, passando in mezzo ad una selva di nuovi grattacieli in vetro, siamo in plaza de mayo proprio di fronte alla casa rosada, sede della presidenza della repubblica argentina. Il palazzo da qualche mese è occupato, legittimamente perché votato dalla maggioranza dei cittadini, da Milei, il presidente sedicente “anarco-capitalista” (brrr1).
Casa Rosada, due sono le teorie sull’origine del nome. La prima riporta ai frigorificos, gli enormi macelli cittadini, dove lavoravano migliaia di emigranti in quanto si dice che come colorante della calce venisse usato il sangue bovino da li proveniente. La seconda ipotesi riporta all’unione dei colori dei due partiti politici argentini di fine’800, bianco e rosso, federalisti e unionisti. Io penso invece che il colore di questo palazzo riporti al sangue di tutti i lavoratori emigranti e a quello dei desaparecidos. Ci accorgiamo subito dei fazzoletti bianchi, Los panuelos blancos, quelli delle Madres de plaza de mayo, dipinti sulla pavimentazione attorno all’obelisco di questa immensa piazza.
Prendiamo alloggio in un ostello poco distante, un posto simpatico giovane dove l’età media dei utenti è circa un terzo della nostra (brrr2). A mezzogiorno abbiamo appuntamento con Fernando, un ciclista di Bari che Enzo ha conosciuto in un altro viaggio. Con lui facciamo un giro per la città passando tra alcuni dei luoghi più noti della città, dalla cattedrale al museo dell’emigrazione, dal centro culturale kirchner alla piazza dei due parlamenti. Finiamo in un vecchio locale dove trovo per la prima volta sul menù il matahambre, letteralmente ammazza fame. Si tratta di una versione della cima genovese cioè una fetta di carne di vitello/manzo arrotolata con all’interno verdure di ogni tipo, formaggio e poi chiusa e cotta in acqua. Si serve fredda, qui la propongono con l’immancabile insalata russa. Rientriamo in ostello giusto in tempo per tirare il.fiato mezz’ora perché alle 16 ci aspetta il tango, ballo argentino per eccellenza, sotto forma nientemeno della sua academia nacional. Ci accoglie il suo direttore, Walter piazza (anche lui di origini italiane,) che ci aiuta ad interpretare le varie sale del museo. Nell’auditorium girano filmati d’epoca dove il mito per eccellenza, Carlos garden, canta Volver.
“Volver con la frente marchita
las nieves del tiempo platearon mi sien…
vivir con el alma aferrada
a un dulce recuerdo
que lloro otra vez”.
Ritornare con la fronte appassita, con le nevi del tempo che imbiancano le mie tempia, vivere con l’anima aggrappata a un dolce ricordo che piango un’altra volta. Chissà cosa pensavano i nostri emigranti sentendo la voce struggente di gardel, quali amori, ricordi, luoghi, progetti. Parole e musica che sembravano raccontare una pena simile alla loro. O chissà, erano così affranti che nessun tango, nessuna milonga poteva descrivere e tantomeno alleviare la loro pena. Tra poco ci dice Walter, inizia una clase, un corso, di tango: se volete assistere … prendete un cafecito al tortoni (caffè storico che si trova proprio sotto l’academia, frequentato oltre che da gardel anche da jorges luis borges che li scrisse i suoi migliori romanzi) e tornate tra mezz’ora. Detto fatto e dopo 30 minuti ci troviamo catapultati in un mondo parallelo fatto di giovani e meno giovani che con più o meno armonia e avvenenza provano le figure del tango.
Scrive l’amico Sabatino Alfonso Annecchiarico, l’amico che ci permesso questo incontro, nel suo “Tango tano” dove mette in luce la stretta relazione che gli immigrati italiani e i loro figli hanno mantenuto con il tango: ” Senza di loro – i tanos – è possibile affermare che il tango, così come è conosciuto e amato oggi, non sarebbe mai esistito”. Un caro saluto e, anche se con la prestanza di una figura tanguera, state in campana.
Carlino